Sono passati due anni dalla morte di don Roberto Malgesini. Era martedì 15 settembre. Ero arrivato come parroco da appena 5 giorni. Mi ha molto colpito l’accaduto e mi sono chiesto: “ma cosa vuole dirmi il Signore con la morte di questo confratello?”. La domanda è rimasta dentro di me e ora vedo i primi germogli di quella morte.
Ho parlato con un amico, don Bartesaghi, sacerdote della diocesi di Como. Mi ha detto che la morte di don Malgesini ha svelato tutta una rete di rapporti che don Roberto aveva creato nel tempo. Se andava a ritirare le brioches in un bar, per poi distribuirle ai poveri, stava a chiacchierare con il gestore del bar fino a conoscerne le vicende familiari e ad interessarsi ad esse. Ogni persona che incontrava era importante per lui. Non andava via velocemente solo per poter ritirare il cibo per la colazione dei poveri. Stava a parlare e ad interessarsi con tutti. Uno stile sorprendente che richiede una dedizione incondizionata. Non aveva un
incarico pastorale tradizionale (parroco, vicario parrocchiale…).
Il suo incarico era vivere creando queste relazioni.
Questo è lo stile che ha usato. Dopo il suo assassinio c’è stato in cattedrale a Como un rosario. Qui il vescovo Oscar e i preti della diocesi di Como si sono stupiti vedendo tanta gente comune che affollava il duomo: si sono così accorti della rete di relazioni che aveva creato. Un nuovo stile ecclesiale? Ma è possibile tenere insieme l’istituzione parrocchia con uno stile così attento alle relazioni? Sembrerebbero quasi incompatibili: o ti dedichi alla parrocchia (che ti assorbe tutto il tempo che hai) o sei libero di creare relazioni. Si possono tenere insieme questi aspetti?
La morte di don Roberto ha travolto così, col dolore ma anche con la consapevolezza di una vita donata con il profumo del Vangelo, i preti e il vescovo di Como (e non solo i preti della diocesi di Como.
don Alberto